Le interviste carnivore: Marcello Catalano

Nato il 28 luglio 1975, Marcello Catalano, naturalista, è stato il fondatore dell’Associazione Italiana Piante Carnivore (AIPC). Nel suo curriculum è facile leggere importanti esperienze lavorative come giardiniere ai Royal Botanic Garden di Sydney, ai Royal Botanic Garden di Kew, a Borneo Exotics e all’Orto botanico di Pavia. Autore di Coltivare le Piante Carnivore, Growing Carnivores e Nepenthes della Thailandia, ha descritto sette nuove specie: N. andamana, N. chang, N. kerrii, N. suratensis e N. mirabilis var. globosa nel 2010, N. rosea nel 2014 e N. kongkandana nel 2015.

  • All’inizio della tua avventura carnivora, cosa ti ha spinto verso questi generi? Successivamente com’è nata l’idea di fondare l’Associazione Italiana Piante Carnivore?

Preistoria, 1980-1990: Nel 1980 ho cinque anni, sono il bambino a cui piacciono draghi, dinosauri e mostri, non mi interessano robot e macchinine. In giardino cerco le lucertole, evito il pallone. Vorrei tenere in casa iguana e coccodrilli, ma non mi viene permesso. Cos’altro c’è di verde e vivo con cui fare esperimenti da scienziato pazzo? Strappo dei fili d’erba, li metto in una tazza con della terra e metto la tazza sotto una lampada da tavolo. L’esperimento fallisce. Provo con tentativi più classici, fagioli e lenticchie su cotone umido, semi di verdure varie su terriccio universale. E’ un successo, ho creato la vita, i germogli crescono e si preparano a distruggere la Terra. O almeno così la vedo io. Arriva il 1985 e ormai coltivo felci, piante grasse, orchidee, qualunque cosa abbia un aspetto esotico, aggressivo, alieno e fuori dai canoni. I tronchetti della felicità e i filodendri li lascio agli impiegati, i geranei li vedo come un’offesa personale. Sul catalogo di aziende che vendono piante per corrispondenza vedo le foto di alcune carnivore. Eccole, trovate, amore a prima vista. Le ordino, muoiono, le riordino, muoiono. Beninteso, quel che arriva è un vasetto con un rizoma mezzo morto e istruzioni ridicole. Compro libri di giardinaggio in italiano, inutili. A Lugano vedo la prima Dionaea adulta dal vivo, ho la bocca aperta incollata alla vetrina. La compro, muore, ne compro altre, muoiono. Però durano sempre di più. Pian piano le dionee diventano più comuni anche nei negozi della mia città, qualche sparuta Sarracenia purpurea appare e scompare, mi attrezzo con terrario e neon, ordino libri in inglese che impiegano nove mesi ad arrivare, compro Gardenia ogni mese, vengono pubblicate lettere di altri derelitti come me, qualcuno ha una Drosera, qualcuno una Nepenthes, ci scriviamo assetati di informazioni. Siamo alla fine degli anni ’80, le dionee finalmente campano e le altre sono anche più facili, ma difficili da trovare.

Medioevo, 1990-1995: Il gruppetto aumenta. Ognuno conosce qualcuno e lo presenta a qualcun’altro, diventiamo una decina. C’è un vivaio in provincia di Udine che si specializza in piante carnivore: Piante Esotiche Marsure, di Furio Ersetti e Lilli Almacolle. Primo e unico in Italia, diventa il nostro centro di gravità. Furio organizza incontri, prima andiamo in cinque, poi si diventa quindici e poi trenta, gira la voce “dovremmo fare un’associazione”. Non farò elenchi tipo squadra di calcio, alcuni di questi personaggi mitici vi passano di fianco durante i meeting e manco ve ne accorgete, scovateli e stringetegli la mano in segno di rispetto.

Rinascimento, 1995-2000: Il primo tentativo concreto viene da Furio. Ci manda una lettera di intenti che promuove la nascita di AIPI, Associazione Italiana Piante Insettivore. Il simbolo è un ascidio di Sarracenia con una mosca che gli vola obliquamente intorno. Purtroppo sono solo intenti e non tengono conto della pigrizia umana. La comunità risponde con un silenzio dal significato implicito: “Fantastico, lo facciamo domani”. Qualche tempo dopo ci riprovo io cercando di tenere in conto il fattore pigrizia. Cambio il nome in uno che mi suona meglio, disegno il simbolo (l’idea di base resta, ma la Sarracenia diventa una S. “Daniel Rudd” vista sul libro di Slack, e modifico la linea obliqua della mosca in volo per usarla come bordo tra il disegno e la scritta) e mi propongo di fare il bollettino, perché serve qualcosa di materiale che attesti l’esistenza dell’associazione. Durante il pranzo del meeting 1997 mi alzo in piedi, spiego che simbolo, nome e associazione ci sono, i soci devono solo pagarmi una quota annuale, mandarmi articoli, e io farò il resto. Applausi, tutti ricominciano a mangiare pensando “mo son fatti suoi”, e nasce l’AIPC. Il primo bollettino parte nel gennaio 1998. Durante il primo anno la cosa viene gestita solo da me. A partire dal secondo anno chiedo se c’è qualche anima pia che può aiutarmi, e così si aggiungono segretario e tesoriere, e in seguito resp. progetto conservazione, resp. banca semi, resp. biblioteca, resp. internet, resp. meeting, e anche presidente e presidente onorario (tutt’ora Sergio Cecchi, che da quando lo conosco ha sempre sessant’anni). Io resto resp. editoriale ed eminenza grigia. Alla fine del terzo anno trovo un resp. editoriale, lascio e comincio a vivere e lavorare all’estero.

    

  • Quali sono state le tue osservazioni, sensazioni e pensieri la prima volta che ti sei trovato a contatto con le specie carnivore nei loro siti naturali?

Le prime le ho viste in Italia negli anni ’90. Si trattava di Drosera, Pinguicula e Utricularia, non i miei generi preferiti, sono stato felice di vederle crescere in pace nel loro ambiente naturale ma non mi hanno impressionato particolarmente. Le ho viste di nuovo in Australia, stesse sensazioni. Poi il destino ci ha messo lo zampino. Nel 2002 ero in Australia e non lavoravo abbastanza, così mi si presentarono due possibilità: potevo arrendermi e tornare in Italia (mai!) e potevo approfittare dello stop-over del biglietto di ritorno, fermarmi a Singapore o Bangkok a scelta, aspettare tre mesi immobile al solo scopo di risparmiare, e infine tornare a Londra in primavera per ricominciare il mio lavoro di giardiniere. Mi dissero che la Thailandia era più economica, andai a Bangkok, e poi mi trasferii a Krabi, nel sud. Dopo quasi tre mesi di noia mortale – dovevo risparmiare, non potevo andare in giro a spendere e spandere – decisi di rischiare ad avventurarmi fuori dalla città in cerca di carnivore. Ti faccio notare che non sapevo nulla della Thailandia, già atterrando a Bangkok mi ero stupito vedendo palazzi e non palafitte, per quanto mi riguardava fuori dalla città potevo incontrare tigri, leoni, anaconda, bande di spietati assassini. Ero solo, non in una comitiva che se la spassa per le spiagge di Phuket, ma solo a camminare sul ciglio delle strade statali. Ok, non ero proprio impaurito, ma incerto sì, anche se dopo una o due spedizioni (partenza al mattino, ritorno alla sera, non esattamente due passi) ci presi l’abitudine. Così un bel giorno vedo a una decina di metri dalla strada, in mezzo all’erba, una pianta con dei fili attaccati alle foglie. Qualcosa penzola dai fili, corro a controllare. Non ci posso credere, è una Nepenthes. Sta lì, per terra, al sole. Niente foresta tropicale, niente muschio. Solo la statale, uno stagno inquinato e una capanna. Il terreno è duro, secco, caldo, sabbioso. Penso che l’abbia piantata qualcuno dopo averla comprata, non riesco a credere che una Nepenthes possa crescere lì, semplicemente… lì. Trattavasi di N. mirabilis, e sì, nei giorni successivi ho accertato che cresce qua e là ed è relativamente comune. Quelle spedizioni mi hanno svezzato, e sono anche diventato schiavo dell’adrenalina. “Mai più in Thailandia” mi son detto nel 2002, per poi tornare nel 2004. “Mai più in Thailandia” mi son detto nel 2004, per poi tornare nel 2006. Nel 2006 non mi sono più preso in giro e il resto lo sai.

  • Hai pubblicato sette nuove Nepenthes. Qual è il lavoro che si cela dietro alla descrizione di una nuova specie?

Quando sono andato a lavorare da Borneo Exotics, tra una chiacchierata e l’altra, ho chiesto al proprietario Robert Cantley: “Quali sono le regole per decidere se una pianta appartiene a una nuova specie o meno? Quali sono le caratteristiche morfologiche che si vanno a guardare?”. La risposta mi ha spiazzato: “Non c’è nessuna regola”. Disarmante, ma quanto aveva ragione. Dopo tutti questi anni, posso articolare la sua frase per rispondere a te in modo meno spiazzante. Se pubblico un articolo di fisica, uso numeri e formule e posso essere contraddetto con numeri e formule, è una scienza esatta. La tassonomia si occupa di classificare gli organismi, e la classificazione si basa sulle convenzioni, sull’opinione condivisa, non è oggettiva, non è esatta. Una metafora del mondo della natura: prendi dieci tubetti di tempera, mettili in un secchio con una bomba, fai esplodere il secchio in una stanza. Ti ritroverai con migliaia di macchie di diverso colore, grandezza e forma. Ognuna di queste caratteristiche può essere misurata e motivata, scienza esatta. Però io ti dico: “Classificamele”. Tu le classifichi in un modo, il tuo collega in un altro. Dieci colleghi entrano nella stanza e sono d’accordo con lui. Pubblicano l’idea. Il popolo si fida perché quelli sono scienziati, la loro classificazione viene presa come una verità oggettiva scolpita nella roccia. In realtà invece si stanno fidando di un’opinione, che così si trasforma in convenzione. Cinquant’anni dopo infatti si fa vivo un tizio che esamina bene le macchie e le classifica in un terzo modo, più convincente. Tutti applaudono, la classificazione precedente viene dimenticata. Il dato oggettivo è che quelle sono macchie, punto, la classificazione dipende dal classificatore e la sua forza sta nel numero di persone che sono d’accordo con lui. Intendiamoci, chi classifica lo fa il meglio possibile, e quindi nella maggior parte dei casi tutto va bene e tutto è condivisibile, ma si tratta sempre di un artifizio umano, il fatto di essere specie o sottospecie non è una cosa innata nella pianta, in trecento anni non siamo neanche riusciti a definire cosa sia una specie (per non parlare degli altri taxa). Darwin fu il primo ad essere deluso da “quanto sia vago e arbitrario il concetto di specie”.

Potresti controbattere: “E l’analisi del DNA?”. Una volta ci speravo anch’io. Non sono un genetista, ma ho chiesto a genetisti. Il DNA si basa su numeri e lettere, ma ti indica solo quanto una pianta sia geneticamente prossima alle altre. A quel punto, classificarle è di nuovo materia di soggettività. Inoltre, non pensare al DNA come alla vera essenza di un organismo, è una prospettiva fallace che avevo anch’io. Un paragone più efficace è quello del DNA come officina: vedi una macchina, ne cerchi la vera essenza e trovi una stanza piena di strumenti; poi capisci che la stessa officina può creare due macchine completamente diverse, mentre officine diverse possono creare macchine quasi indistinguibili (per approfondire, vedi “epigenetica”). Quando classifichi, capire quali officine creano quali macchine è metà del lavoro, il sapersi barcamenare con l’aspetto delle macchine è l’altra metà. L’uomo e lo scimpanzè per il 99% sono geneticamente uguali, non puoi usare solo il DNA. La classificazione sarà soggettiva ma ce la siamo inventata per avere una chiave per decifrare la vita, se scriviamo la soluzione in ostrogoto classificando gli organismi solo in base al DNA sprofondiamo nel caos.

Dopo questa lunga premessa, tu mi chiedevi quale lavoro c’è dietro. Prima di classificare, devi trovare il maggior numero di colonie di Nepenthes (e già sono anni che se ne vanno), osservare le caratteristiche morfologiche delle piante di ogni colonia, e vedere quali cambiano e quali restano. Devi avere molto occhio, non si tratta solo di misure, si tratta di forme che possono essere variabili e ingannevoli. Come per le macchie sul muro, devi aver bene in testa il quadro generale e i dettagli, più sai e più la tua classificazione avrà un senso. Quando hai visto solo due colonie e sono molto diverse e molto lontane, l’impulso è quello di considerarle specie diverse. Dopo anni però trovi altre sette colonie e ti accorgi che le due specie diverse sono solo gli estremi opposti di una linea, e che la linea può essere vista come una specie sola. Altre volte vedi le piante in sette colonie e ti sembrano una sola linea e una sola specie, e dopo anni ti accorgi che la settima colonia appartiene a un’altra specie, le cui nove colonie dalla parte opposta aspettano ancora di essere scoperte. Infatti ho già in programma di sinonimizzare alcune delle specie che ho descritto, cioè di cancellarle unendole ad altre, sono sempre in mezzo a un work in progress.

Al contrario di quel che si pensa, per descrivere una nuova specie non devi per forza essere un botanico. Io non lo sono. Al mondo ci sono tre botanici specializzati in Nepenthes, e molte Nepenthes sono state descritte da semplici appassionati. Il botanico ha una laurea in biologia e una specializzazione nelle varie branche della botanica. Studia la materia in generale, per poi passare – per passione o professione – allo studio di taxa particolari. Se una persona studia un gruppo di piante meglio di un’altra persona, e si destreggia con le regole della nomenclatura, la laurea conta poco. Nella storia delle Nepenthes dell’Indocina, gli errori peggiori sono stati fatti da botanici, mentre le soluzioni migliori sono state trovate da semplici appassionati. Il motivo è legato a quello che ti ho detto: meglio conosci un gruppo di piante e migliore sarà il tuo lavoro. Se il capo ti chiede di studiare sei famiglie contenenti settanta generi e hai quattro anni di tempo, avrai modo di conoscere il soggetto meglio o peggio di qualcuno che per passione si prende vent’anni per studiare un genere solo?

  • Hai fatto molti viaggi, abbiamo visto le foto dei tuoi reportage. Come ci si prepara prima di una spedizione? Come la si organizza?

Sono spartano e il bagaglio lo seleziono in modo spartano, ma non è obbligatorio. C’è chi viaggia coperto di zaini enormi fino alla testa, questione di gusti. Io uso un normale zaino Invicta per le spedizioni giornaliere (l’avrai visto nelle foto) e uno zaino più grande per spostarmi da una città all’altra. Nello zaino piccolo metto marsupio, fogli vari, telecamera, macchina fotografica, GPS, e poi cosine tipo forbici, coltellino, sacchettini, Autan, scotch etc. Nello zaino grande metto due jeans, cinque magliette, cinque paia di mutande, cinque paia di calze, un maglione, roba da toilette e qualche aspirina. Vado con un paio di scarpe comode, anche da ginnastica, NON da trekking, e un paio di stivali di gomma, per le paludi. Fine. Non servono medicine particolari, anche se per Cambogia e Laos vengono di solito consigliate le pasticche per la malaria. Preparazione fisica? Se siete obesi e ansimanti non è il caso di partire, ma non è necessario essere sportivi.

L’organizzazione dei miei viaggi è peculiare. Quando pensi Nepenthes, pensi alla montagna del Borneo, agli esploratori in fila che seguono la guida col machete e dormono nella giungla. Ecco, quelle NON sono le mie spedizioni. Le mie sono più facili e più difficili allo stesso tempo. Nel Borneo c’è la N. rajah, tutti sanno cos’è in Europa, tutti sanno cos’è in Borneo, tutti vanno a vedere la stessa pianta sulla stessa montagna, a tutti danno le stesse istruzioni, che mezzi prendere, dove andare, cosa fare, chi contattare, e la guida spiegherà come fare, quanto pagare e cosa portarsi. Il viaggio è lungo, è una bella scalata, si dorme nella foresta selvaggia dove ogni giorno passa una colonna di turisti, e si gode di quel paradiso naturale e di quelle piante meravigliose, niente sorprese, niente contrattempi. Tutto bello, selvaggio e preconfezionato. Nel mio caso invece, le fonti sono cartellini di erbario che indicano località introvabili o incomprensibili, e voci di corridoio. Quando ho una traccia, metto la destinazione nell’elenco dei posti da controllare e alla fine lavoro sull’elenco. Facilità e difficoltà consistono nel fatto che non mi tocca scalare una montagna al giorno, perché gran parte del tempo lo passo in pianura, cercando di capire su QUALE montagna/isola/città/paese/distretto devo andare e come ci posso arrivare. Una volta arrivato devo cercare le piante, e trovarle non è scontato. In Malesia tiri un sasso e colpisci una Nepenthes, in Indocina sono molto rare. Per ogni location dell’elenco, prima del 2010 improvvisavo e il risultato sono le duecento pagine di “Nepenthes della Thailandia”. Stufo di collezionare disgrazie, dopo il 2010 ho cominciato ad organizzarmi in modo maniacale. L’organizzazione consiste nel preparare una serie di piani B atti ad evitare le disgrazie. Rispetto alla gita in Borneo, le mie missioni sono più deprimenti, rischiose, uniche, sorprendenti e costellate di insuccessi. Sembra contraddittorio ma è così.

Ora ti spiego i piani B. Tipiche istruzioni prima del 2010: “La pianta cresce nel distretto di Takuapa, auguri”. Segue avventura d’inferno a Takuapa. Tipiche istruzioni dopo il 2010: “A Takuapa ci sono quattro zone con savane sabbiose, in ordine di importanza fai la 1, poi 3, 2, 4 (vedi mappa stampata), parti dal punto 12 34.524°N, 3 32.555°E, segui la strada x, il satellite mostra delle fermate dell’autobus, forse c’è un autobus che parte dal villaggio x, delle capanne sono visibili vicino alla seconda savana, lì puoi chiedere se hanno visto le piante, altrimenti procedi fino al punto x cercando specialmente sul lato destro, se fino a lì non hai trovato niente, annulla e torna a casa”. Preparare una decina di fogli con questo materiale richiede qualche settimana. D’altronde uno a casa dice: “Vabè, quando sono lì le trovo”. Col cavolo, ti capita di TUTTO, te ne andasse mai bene una, e ottenere informazioni sul posto è un delirio, sei in mezzo al nulla, se sei fortunato trovi dei contadini, figurati cosa ti sanno dire. Il vademecum ti salva la giornata. Prima del 2009 non avevo neanche il GPS, andavo a memoria, e facevo molto autostop. Dal 2010 viaggio con l’amico thailandese Trong, anche lui appassionato di Nepenthes. Parla la lingua, ha la macchina con tablet e GPS collegati, ci muoviamo seguendo le mappe di Google Earth, è tutta discesa, eppure ancora ce ne capitano di tutti i colori.

  • Tra i tuoi tanti viaggi, quello più invidiato dai coltivatori è senza dubbio la tua esperienza da Borneo Exotics nello Sri Lanka, ci racconteresti qualche aneddoto?

Ti racconto la trama! Prima di lasciare Italia e AIPC nel 2001, metto un annuncio su un forum internazionale, nella speranza di trovare un lavoro all’estero con le carnivore. Ricevo una richiesta dagli Stati Uniti, troppo lontano. Alla fine mi butto e scrivo a Kew, mi propongono uno stage, accetto. A Kew chiedo di lavorare nelle serre tropicali chiuse al pubblico, dove ci sono le collezioni più interessanti. Passo tre mesi a badare alle orchidee. La serra delle Nepenthes è quasi vuota (acqua del rubinetto usata dai precedenti giardinieri). La direzione vuole rinnovare la collezione, e l’unica azienda che può soddisfare un ordine del genere è Borneo Exotics. Nel ’98 avevo incontrato Robert Cantley a un convegno, nel corso del quale gli avevo chiesto un autografo. Quando lo incontro a Kew, mi dice che si ricorda dell’autografo (mi sa che non gliel’ha mai chiesto nessuno) e del mio annuncio, quando l’ha letto avrebbe voluto rispondermi ma ha dovuto rimandare. Mi propone di andare a lavorare da loro dopo Kew. Dopo Kew ho l’Australia (2001), poi la Thailandia (2002), poi ancora Londra (2002), poi Milano, poi la Thailandia (2004) e poi finalmente sono in balia dei venti e ricontatto Rob. L’accordo è: fino a data da destinarsi sono spesato di tutto, mi regalano le piante che voglio (io le rivendo) ma non possono permettersi di pagarmi. Come stage per me va benissimo. Vado nello Sri Lanka.

Hanno due vivai, uno nelle lowland e uno nelle highland. Vengo piazzato in quello highland. Pensa a colline dietro colline, coperte da piantagioni di tè, e nient’altro. NIENTE. Niente strade, negozi, persone, illuminazione, niente. Solo qualche baracca coi lavoratori del posto. Io e Diana (compagna di Rob) eravamo gli unici occidentali, e dopo un paio di settimane lei è tornata nelle lowland. Per fare la spesa dovevo aspettare che lei tornasse, nel weekend, per prendere la macchina e raggiungere il paese più vicino. Un dettaglio per descrivere il paese: la macelleria è un chiosco all’aperto, con sangue e frattaglie che colano dal bancale e il tetto coperto di avvoltoi in paziente attesa. Passiamo al lavoro. BE coltiva le sue piante in fibra di cocco, perché sfagno e torba non sono reperibili (motivi ecologici che conoscete), mentre la fibra costa una miseria. Grazie al clima locale e al fertilizzante, in sei mesi la fibra diventa fango, e se le piante non vengono travasate peggiorano velocemente. Parliamo di decine di migliaia di piante, e il travaso è il lavoro principale dello staff. Poi bisogna spostare, fertilizzare, selezionare, impacchettare, pulire, ci sono tantissime cose da fare. Nelle highland ci sono tre serre, una con esemplari adulti, selezionati per essere portati a fioritura e produrre ibridi (gli stalloni), una di adattamento coi seedling appena usciti dal TC, e una dove vengono coltivate tutte le vie di mezzo, praticamente quello che si vende.

Io avevo due lavori principali. Primo: rinvasare gli stalloni, perché i boss non si fidavano dello staff generico. Secondo: erano state individuate alcune specie sofferenti, a me il compito di capire cosa non andasse e fare esperimenti per risolvere il problema. Esempio (fittizio): la N. alata soffre, per me non ama la fibra, o forse ci vuole più fertilizzante, allora seleziono dieci esemplari di controllo in fibra e con un grammo di fertilizzante, dieci esemplari in sfagno e con un grammo di fertilizzante, e dieci esemplari in fibra e con dieci grammi di fertilizzante. Ora pensa a dieci specie, per ognuna dovevo capire quale attuale combinazione di fattori potesse essere il problema. Se avessi avuto molti dubbi sulle cause, avrei dovuto creare molte combinazioni per le soluzioni, e sarei finito dallo psicanalista per esaurimento. Hai una pianta a casa a Milano che sta male? La guardi, la segui, la conosci, la capisci. Sei arrivato da due giorni su una collina dello Sri Lanka e devi prendere la mano coi problemi di duemila piante, laddove le altre ventimila stanno benissimo? Surriscaldamento in arrivo. Una volta a settimana dovevo misurare tutti gli esemplari degli esperimenti, miglioramenti e peggioramenti dovevano basarsi su numeri, non impressioni. Non c’era altro da fare, così nel weekend rinvasavo gli stalloni, durante la settimana pensavo agli esperimenti, e nell’abbondante tempo libero (specialmente quando pian piano stalloni e sforzo psicologico per gli esperimenti sono stati sistemati) facevo ogni lavoretto che Diana mi comunicava per telefono. Fortunatamente sempre cose un po’ speciali, niente lavori forzati. Le piante venivano indicate con codici. I miei appunti erano pieni di “sposta trenta H5 da serra 5 a serra 3”, “seleziona trenta seedling di H21”, “pulisci secco in serra 5”, “controlla terreno e foglie H8”. A dirlo sembra poco, ma ho trottato per otto ore al giorno, sette giorni su sette, per tre mesi. Il lavoro non era pesante, specialmente se uno ama le Nepenthes, ma non ti fermi mai. La sera torcia per seguire il sentiero fino a casa, doccia con acqua della cisterna sul tetto, e a letto per le dieci. Il monsone portava il diluvio alle 16:30, smetteva per le 22 o continuava fino alle 6.

Dopo tre mesi, Rob e Diana mi avrebbero adottato ma io non ne potevo più. Non per altro, ma non c’è nulla, non c’è nessuno, a confronto Krabi è un parco giochi. Loro hanno l’un l’altro, hanno un business e hanno una casa, io ero da solo e ospite. Comunque hanno capito. “Se mai cambi idea facci un fischio”, e sono tornato in Italia.

  • Ci parleresti delle condizioni climatiche che hai incontrato in Thailandia negli habitat che ospitano Nepenthes e di come cambiano durante il giorno?

Il motivo per cui in Indocina si è evoluto un gruppo di specie tutto particolare è che il clima indocinese è diverso da quello del resto del sud-est asiatico, quindi conoscerlo non vi aiuterebbe a coltivare meglio le vostre Nepenthes, a meno che non coltiviate specie indocinesi, e raramente succede. I fattori fondamentali restano gli stessi: queste piante crescono in radure, prati, circondate da cespugli o alberelli sparsi, lungo strade e fiumi, insomma dove possano ricevere una gran botta di luce, non crescono nella foresta primaria. Capisco che in alcune foto si vedano sullo sfondo i tronchi coperti di muschio, ma quelli sono gli habitat di alta montagna, non sono foreste fitte. Le montagne sono coperte fino a una certa altitudine da foreste fitte, poi la vegetazione si fa più rada (e suggestiva), e a quel punto siamo a duemila metri sulla linea dell’equatore, hai voglia la luce che arriva, hai voglia a pararla con gli alberelli coperti di muschio. Highland o lowland, non mi stancherò mai di dirlo, abituatele gradualmente ad avere più luce possibile, cercando di non sgarrare nel frattempo con le altre cose, in particolar modo con la temperatura. Quanti ne vedo che “oddio, la mia pianta ha cominciato a mostrare una sfumatura rossa su una foglia, si sta bruciando? La sposto dal salotto allo sgabuzzino? La spruzzo 45 volte al giorno, è abbastanza? E’ una N. rajah, ora che siamo in agosto soffre perché di notte ci sono 28°C, uso il ventilatore?”. Vabè, scusa, taccio. La differenza tra tutto questo e l’Indocina è che lì ci sono i monsoni, c’è una stagione secca che dura mesi, e così le piante si sono adattate sviluppando radici tuberose e usando altri piccoli espedienti. Sono facili da coltivare perché resistono meglio alla bassa umidità, ma anche loro esigono una quantità di luce surreale per dare i risultati migliori.

  • A proposito del tuo secondo libro, “Nepenthes della Thailandia”, quanto è stato difficile passare dalla scrittura di un manuale (“Coltivare le Piante Carnivore”) alla forma narrativa?

Ho fatto il liceo classico, e l’ho fatto perché sono stato obbligato. Dalle risposte precedenti forse avrai intuito che non ho esattamente quello che potrebbe definirsi “un ampio spettro di interessi”. Non vorrei partire da troppo lontano, ma io stavo benissimo finché ero a casa a farmi i fatti miei. Poi i miei genitori mi hanno strappato dalle mura domestiche e mi hanno spedito all’asilo, ho cominciato a piangere e ho smesso quando ho abbandonato l’università. In quell’arco di tempo, ci fosse mai stato un argomento, una materia, una lezione di cui mi sia fregato qualcosa. Gli unici giorni felici sono stati quelli di vacanza. “Ma è così bello conoscere la storia di…”. Alt: è bello saperla o è bello impararla? Però non posso negare l’utilità dei miei studi. Odio leggere, ma scrivere mi viene facile e torna utile quando mi devo esprimere. Questa premessa era per spiegarti che non penso di avere particolari abilità letterarie, ma forse so immedesimarmi nel dolore che qualcuno può provare quando affronta una cosa così pesante come la lettura, e cerco di rendere l’esperienza meno straziante possibile. Scrivere il manuale è stato difficile. Dovevo entrare nella testa di qualcuno che non sa niente di carnivore, che fa ogni tipo di errore, dovevo trovare tutte le risposte, semplificarle, riassumerle, includerle una nell’altra o evitare i problemi a monte, per poi arrivare a una sintesi perfetta, doveva esserci tutto ma in breve. Alcuni superficialmente interpretano quel libro come un manuale per principianti, ma i più esperti hanno capito che i fondamenti sono tutto, e spiegarli bene non è da poco. Il secondo libro è più lungo ma è stato molto più facile, l’ho scritto di getto. Erano ricordi divertenti ed emozionanti, dovevo solo riportarli sulla carta assicurandomi che le parole descrivessero situazioni ed emozioni il meglio possibile, o che perlomeno il lettore non si addormentasse. Credo che il successo di entrambi i testi sia dovuto all’argomento più che all’autore. Parlano di carnivore e piacciono ai carnivori. Sono fiero dei contenuti perché un libro è ben costruito e l’altro racconta vicende che andavano raccontate, ma non sono uno scrittore.

  • Hai in programma qualche nuovo viaggio? Quali sono i tuoi progetti futuri in ambito carnivoro?

Dal 2008 il ritmo si è stabilizzato, passo quattro mesi a Londra, un mese in Indocina e il resto dell’anno a Milano. Più di un anno fa ho vendute le ultime piante e ora non coltivo più. Mi sono concentrato sullo studio delle Nepenthes indocinesi. Un paio di anni fa ho chiesto gentilmente ai carnivori di non farmi più domande sulla coltivazione, causa pensionamento. Sarei pronto a rispondere ad eventuali domande sulla classificazione delle Nepenthes indocinesi, ma nessuno mi chiede mai niente in proposito, ah ah. Comunque, l’uscita dal mondo della coltivazione ha dato l’impressione che io non faccia più nulla, ma questo succede perché il 99.9% degli appassionati è appassionato solo di coltivazione. In realtà al momento avrei bisogno di due vite per fare quello che devo fare. Tra il 2004 e il 2010 mi sono speso nei viaggi e negli studi che hanno portato a “Nepenthes della Thailandia”, ma quello era solo l’inizio, la versione italiana, e siccome agli italiani non interessa la tassonomia, ho dovuto scrivere un testo sotto forma di diario di viaggio, altrimenti vendevo due copie. Il giorno dopo la pubblicazione di “Nepenthes della Thailandia”, ho cominciato a scrivere il VERO libro, il testamento scientifico che sarà usato come riferimento (da sei persone) anche fra trecento anni: la versione inglese, “Nepenthes of Indochina”. Sarà un libro di tassonomia, tipo Clarke. Solo che gli autori precedenti hanno affrontato l’argomento Indocina in poche pagine, mentre il mio mostro sarà il frutto degli studi 2004-2018-e oltre, e al momento pare che totalizzerà un buon 400 pagine. Sono andato due volte in Laos, due in Cambogia, una in Vietnam, e continuo ancora con la Thailandia. Il libro per il 90% è scritto, ma ci vorranno anni per correggerlo, completarlo e rifinirlo. Dal 2010 ci ho lavorato tutti i giorni. E’ un tale casino che non ci crederesti. Soprattutto, non è che uno va in natura, vede, capisce, scrive, ed è fatta. Macché, si scoprono piante nuove che mettono sotto sopra l’interpretazione precedente, appena penso di aver chiuso una questione si apre una botola e mi accorgo che avevo solo grattato la punta dell’iceberg. E’ un lavoro lungo, non se ne intravede la fine. L’anno prossimo penso di saltare il viaggio, per poter spendere un po’ di più l’anno dopo. Devo assolutamente trovare colonie intermedie nella costa ovest della penisola thailandese, dobbiamo sperare che le analisi molecolari in fase di pubblicazione da parte dei thailandesi diano risultati coerenti con la filogenia che ho in testa io, devo cercare di visitare due colonie in Cambogia, mine permettendo, e ci sono tanti posti dove dovrei tornare per assicurarmi che nella zona sia presente una sola specie e non due, o che la specie che abbiamo visto in un posto sia distribuita poi verso nord piuttosto che verso sud. Saranno di nuovo giornate in motorino sotto il diluvio, saremo di nuovo arrestati dalla polizia di confine, sarà di nuovo la solita sequela di disgrazie. La mia paura è che potrei arrivare a un pelo dalla fine del libro, poi muoio e va tutto in malora. Dio, fammi finire il libro, poi puoi uccidermi quando e come ti pare.

  • Negli ultimi anni c’è stato un rallentamento nell’ambiente carnivoro italiano, forse una piccola perdita di vigore. Cosa consiglieresti per riprendere quell’entusiasmo che ha contraddistinto gli anni ’90 e 2000?

Sono impreparato. Non ho visto nessun rallentamento, ma sono anche stato poco presente. Quello che da sempre noto e notiamo è un degrado, ma penso che sia solo un’impressione. La prima decina di coltivatori si accorse subito che la generazione successiva era meno entusiasta, più acqua di rose, e il trend è continuato negli anni. Noi la si chiama generazione, ma non parliamo di figli e nipoti. Ogni 5-10 anni arrivano e si stabilizzano un certo numero di nuovi coltivatori che fanno comunità, mentre alcuni dei vecchi partecipano meno o spariscono. Queste sono le generazioni. I vecchi giudicano severamente il degrado delle nuove generazioni, non è una novità. La frase “ai miei tempi…” l’hanno sentita tutti. Secondo la mia spiegazione del fenomeno, tuttavia, c’è spazio per il giudizio severo di noi vecchi novantenni ma anche per la soddisfazione personale dei giovani. Penso che il degrado sia un’illusione ottica dovuta all’allargamento delle maglie del filtro dal quale fanno capolino i nuovi coltivatori.

Avere la passione per le carnivore negli anni ’80 era dura: non c’erano carnivore, non c’erano informazioni, il filtro aveva maglie strette, in un decennio è passata solo una manciata di guerrieri pieni di entusiasmo. Già dopo la prima generazione, le informazioni sono aumentate a dismisura, le piante disponibili pure (era proprio l’obbiettivo dell’AIPC!), il filtro ha allargato le maglie, ed è passato anche chi aveva meno entusiasmo. E’ qui che entra in gioco l’illusione: i vecchi giudicano, ma il peggioramento non è oggettivo, è solo che se prima una generazione portava con se due eccellenze e dieci coltivatori all’acqua di rose, la generazione successiva ha portato due eccellenze e trenta coltivatori all’acqua di rose, e quella ancora dopo ha portato due eccellenze e cinquanta coltivatori all’acqua di rose. Tutta colpa delle maglie, ma grazie al cielo la statistica ci salva facendo sempre nascere una nuova eccellenza ogni tot milioni di abitanti. Se siete vecchi continuate pure a prendervela con l’acqua di rose, nella quale ormai nuotiamo, mi rendo conto. Sappiate però che di coltivatori italiani bravissimi e che mai avevo sentito nominare io continuo a vederne comparire, quindi che i giovani non si sentano da meno. Oltretutto, c’è acqua e acqua, uno ha tutto il diritto di aver giusto giusto una decina di piante sul balcone, preoccuparsene poco e dopo vent’anni avere ancora le stesse e in ottima salute, mica è una colpa, anzi, complimenti per la costanza e l’autocontrollo.

Detto questo, permettimi lo sfogo da novantenne su altri tipi di acqua di rose, perché ormai il filtro è rotto e le maglie non ci sono più. Quello che vedo, e che sottovoce la gente mi descrive con tristezza, sono la morte della gavetta, lo snobbismo verso i principi fondamentali e la sindrome da supermercato. Oggi la coltivazione è: “Buongiorno, volevo tre Cephalotus, un po’ di Darlingtonia, poi tre Heliamphora… sì, mi dia anche una H. minor… poi una N. villosa, tanto per provare… cinque Nepenthes… sì, highland… e la MK71, che va così di moda… e basta così, ho appena iniziato”. “Ok, ho fatto due etti e mezzo, lascio?”. Segue domanda su Facebook (ormai sono morti pure i forum): “Raga, guardate la mia collezione, sono 130 piante, ecco la growlist, ci ho anche il set-up, il manubrio in carbonio, micorrize e trichoderma, quello nell’angar è un bombardiere stealth, l’ho comprato per mettere la villosa dentro la carlinga; ho un dubbio, cosa sono quelle palline bianche? Perlite? E cos’è? E poi perchè molte piante sono gialle? Innaffiarle? Vanno innaffiate?! Vabè, io sono stufo, domani butto via tutto e torno alla Play Station”.

Non so se quello che chiami rallentamento è quello che io chiamo degrado, ma se ho ragione, non si tratta di trovare una soluzione, ma di capire che non esiste il problema. Se invece ho torto, e negli anni le eccellenze vecchie spariscono, di nuove non ne arrivano, e ci troviamo con la sola acqua di rose, allora c’è poco da fare, si può solo sperare in fasi storiche migliori. D’altronde fra qualche decennio potremmo essere tutti collegati telepaticamente a un’intelligenza artificiale e vivere in un ologramma, figurati se ci sarà qualcuno che coltiva carnivore.

  • Un’ultima domanda. Vedo che scrivi “le Nepenthes”, non è più corretto “le nepenti”?

Se vuoi andare sul sicuro, scrivi pure “le nepenti”, ma a me viene l’orticaria. Una regola misteriosa pare costringa a non usare l’articolo prima del nome latino delle piante. Non puoi dire “le/la Nepenthes” o “le/la Sarracenia”, devi dire “le nepenti, la nepente” e “le sarracenie, la sarracenia”, usando il nome comune. Ci siamo messi in tre a cercare l’origine della regola, ma più di “me l’ha detto tizio o caio” non abbiamo trovato. Potrebbe trattarsi di un fraintendimento. Ad esempio il fatto di DOVER scrivere i nomi latini in italico è un fraintendimento. Pare che ti prendano a frustate se non lo fai, errore da bocciatura o garrotta. Non è così. Il codice SUGGERISCE di farlo, e aggiunge che NON farlo NON è un errore. L’unica regola che potrebbe vietare “le Heliamphora” o “la Sarracenia” è la regola che vieta di dire “il Mario”: niente articolo davanti ai nomi propri. Se è di quella regola che stiamo parlando, non parla di botanica ed è piena di eccezioni. Nella seguente scenetta, la grammatica è corretta: “Guarda Jack, sette di quei furfanti si chiamano Mario e otto si chiamano Gianni, quasi come un gruppo di piante, dove diversi individui hanno lo stesso nome scientifico; tu interroga i Mario, io penso ai Gianni; guarda quei due uno di fianco all’altro, il Mario guarda in basso, mentre il Gianni tiene lo sguardo alto; hey, un Mario sta scappando, e il Gianni che stavi interrogando lo segue!”. Aggiornatemi sulle vostre fonti o dovrete sopportare le Nepenthes, le Sarracenia e le Drosera. Se volete declinare il nome al plurale allora sì che c’è una regola prevista dal codice, non si può dire Sarracenie, solo Sarracenia o sarracenie. Passando ad altro, vogliamo parlare di quelli che dicono neppa e cippa?…

Carnivorandia 21 febbraio 2018
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Foto di Marcello Catalano.

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