Giulio Pandeli nasce a Fiesole (Firenze) il 9 febbraio 1985. Il primo incontro col mondo delle piante carnivore avviene alla tenera età di cinque anni, quando i genitori gli regalano una piccola Dionaea muscipula. Le varie esperienze, unite ai primi contatti con i pochi appassionati dell’epoca, lo porteranno nel 1998 ad essere il più giovane socio dell’allora nascente Associazione Italiana Piante Carnivore. Uno dei coltivatori Italiani più stimati attualmente ricopre la mansione di coordinatore dei progetti conservazione AIPC, portando avanti progetti, monitoraggi e ricerche sulle zone umide italiane.
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Ci racconti come hai iniziato a coltivare?
Per ricordare quel lontano e meraviglioso momento dovrei ritornare all’età di 4-5 anni circa. Era un giorno particolare, in cui i miei genitori mi portarono allo zoo di Pistoia a vedere per la prima volta animali esotici. Giusto all’esterno dell’ingresso, se non ricordo male in mezzo ad un ampio spiazzo, vi era un piccolo prefabbricato che vendeva numerose piante, fra cui, la mia prima Dionaea muscipula. Inutile dire che fu amore a prima vista: le piante carnivore a quell’epoca facevano comparsate talmente rare dai fiorai e nelle poche serre cittadine tali da farle considerare vere e proprie entità aliene. Potete immaginarvi, come già successo per altri coltivatori in fasce, trovarsi davanti una pianta del genere per la prima volta..la superba scintilla che ne scaturisce nell’osservare quel vasetto di terracotta, la fragranza della lolla di riso (che a quei tempi la Cresco era solita usare) e, soprattutto, quelle curiose trappoline che si chiudevano più o meno bene una volta stimolate. Ricordo ancora che, prima di acquistare la prima Dionaea, il venditore mi mostrò nel retro alcune nepenti in penombra; l’associazione che ne scaturì fu: “pianta carnivora grande che non si muove” e “pianta carnivora piccola che scatta”, mamma mi compri quella che si chiude? E così fu. Gli anni seguenti, complice la difficoltà a reperire informazioni di coltivazione e libri (rigorosamente in inglese) nelle più disparate librerie della città, uccidevo sistematicamente le poche dionee che spuntavano rarissimamente nelle serre. Di pari passo, come molti altri colpiti in tenera età, disegnavo continuamente molti generi che trovavo solo sulle enciclopedie (I Quindici, Enciclopedia delle Scienze Naturali), spesso ideandomi i metodi e le raffinatezze di cattura (qualcuno ha presente l’opercolo della nepente che si chiude? ). Intorno al ’91-’92 trovai, per puro caso, il libro di James and Patricia Pietropaolo “Carnivorous Plants of the World”, nella cui bibliografia erano riportati preziosi contatti sia oltre oceano che in altri paesi. C’erano dunque associazioni del calibro di ICPS, la British e quelle australiane che, sollecitati con la semplice lettera affrancata ti rispondevano, magari dopo mesi, mandandoti meravigliosi bollettini che custodisco tuttora. Non passò molto tempo che iniziai a fare alcuni pellegrinaggi all’Orto Botanico “Giardino dei Semplici” di Firenze, dove il curatore della collezione, in seguito mio professore, mi mostrò per la prima volta Darlingtonia californica, Cephalotus follicularis, Drosera regia, Byblis liniflora e molte altre. Per le sarracenie e drosere veniva spesso utilizzato un grande contenitore di vetro con tanto di dosatore per l’acqua: “Sono stati costruiti da un professore di Sesto Fiorentino, colui che ci ha insegnato molte delle tecniche di coltivazione.” – mi raccontò. Essì, proprio lui, il Grande Maestro Sergio Cecchi, che insieme a pochi altri gettarono le fondamenta per la passione carnivora in Italia. Entrare nel reame di Sergio nel ’95 (il liceo scientifico Agnoletti che tante volte ci ospitò per i primi meeting AIPC) era un esperienza che lasciava letteralmente a bocca aperta: due piani di scale e gli esterni erano riempiti di ogni prelibatezza mai vista (Heliamphora, Byblis, Genlisea, Ibicella, Drosophyllum, nepenti colossali; più sarracenie, utricularie e drosere coltivate in scatole di vetro). Sempre lo stesso giorno conobbi altri due appassionati di vecchia data come Renato Cerretelli, Antonino Rizzone dopo aver ricevuto in regalo un Cephalotus da seme e un bellissimo Drosophyllum… veramente tanta roba a quei tempi! Sergio amava molto parlare delle sue passioni, in special modo quando vertivano su temi scientifici o naturalistici: era infatti l’unica persona, all’interno delle piante carnivore, ad aver osservato negli anni 60-70 Aldrovanda vesiculosa in Toscana. Se vi dovessi dare un consiglio spassionato, incontratelo ai meetings AIPC e lasciatevi stupire dai suoi racconti: non ve ne pentirete! Gli anni successivi furono contraddistinti da alcuni incontri al liceo (mi ricordo Mike King che portò i primi cloni di Sarracenia, la presentazione di Alfred Lau sulle pinguicole messicane) e, finalmente, la fondazione di AIPC nel 1998, che provocò davvero una piccola grande rivoluzione di appassionati qua in Italia. L’avanzamento delle tecnologie, la mailing list sempre più nutrita di appassionati, mi permise di conoscere dal vivo molti altri “grandi” del calibro di Marcello Catalano, Andrea Amici e Furio Ersetti con cui ci si scriveva dal lontano ’94. Purtroppo, per motivi familiari, dovetti abbandonare le piante carnivore nel 2002 per circa 4 anni; nel 2006, complice una nuova postazione e l’incontro con alcuni vecchi amici, mi permisero di ripartire con una passione rinnovata. L’ambiente aveva già fatto un bel passo avanti, anche in funzione dei numerosi forums tematici, ma dopo un po’ di tempo riuscii a ricrearmi una piccola collezione ed a interessarmi, anche per via degli studi, alla questione della conservazione. Da li in poi conobbi tanti nuovi amici che tuttora rappresentano dei veri e propri pilastri della nostra associazione.
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Qual è il tuo approccio alla coltivazione?
Il mio approccio è sempre stato molto vario e travagliato. Nei primi anni ’90 si usciva da un particolare periodo di transizione fra il vecchio e il nuovo in cui alcune “ricette” sperimentali, ritrovate comunemente nei vari libri stranieri, venivano scartate in virtù di standardizzare le tecniche di coltivazione il più possibile. Ecco allora la necessità di utilizzare solo ed esclusivamente il classico composto a base di torba di sfagno e sabbia/perlite, i numerosi dogmi sulla coltivazione all’inglese che in seguito si dimostrarono più o meno errati in clima mediterraneo… questa fase di semplificazione, dovuta anche all’esigenza di facilitare i nuovi appassionati, durò almeno fino al 2010-2011. Nel 2012-2013 venne ripreso, invece, il discorso dei substrati alternativi in funzione della sostenibilità, dando il via a una nuova “stagione” di sperimentazioni che i coltivatori più curiosi proseguono ancora oggi.
Personalmente credo che, dal punto di vista della coltivazione, uno non possa esimersi dallo sperimentare: il tentare/provare strade nuove deve essere stimolo di studio, di crescita e soddisfazione per il coltivatore, oltreché utilissimo per esplorare tutte le potenzialità adattive di una determinata specie. Non arrendiamoci mai alla prima difficoltà e cerchiamo di ampliare le nostre conoscenze ove e quando risulta possibile.
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Qual è la tua specie preferita, e che consigli daresti a chi si appresta alla coltivazione di questa?
Hai fatto bene a specificare, dato che vivo spesso il dualismo fra l’attività di studio sul campo e quella della coltivazione. Parlandone in quest’ultimo frangente, ti direi subito le varie specie di Sarracenia, anche se i generi Nepenthes e Utricularia sono molto interessanti. Come per tutte le piante non è sempre detto che ci sia un solo metodo di coltivazione: abituatevi, anche in questo caso, a sperimentare e a condividere le vostre esperienze!
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Sappiamo che sei da sempre impegnato nei progetti conservazione, di cosa si tratta e perché è cosi importante?
Il Progetto Conservazione AIPC si occupa del censimento, monitoraggio e salvaguardia dei
biotopi dove prosperano le piante carnivore italiane, ed è uno degli obiettivi più importanti perseguiti dalla nostra associazione fin dalla sua nascita nel 1998. L’importanza nasce dal fatto che questi ambienti, di notevole valore naturalistico, ecologico, storico e didattico, rappresentano spesso habitat di interesse comunitario/prioritario secondo la la Direttiva n. 92/43/CEE “Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche“; scrigni preziosi di biodiversità, ormai sempre più provati dai cambiamenti ambientali e antropizzazione, che meritano quindi di essere conservati nella loro interezza e non solo per le peculiarità floristiche.
Non è quindi una sorpresa se molti dei nostri volontari possiedono, vuoi per studio o semplice passione, un’infarinatura di base sulle scienze naturali e le dinamiche degli ecosistemi. Spesso e volentieri sono anche soci di altre associazioni di salvaguardia (es. il GIROS per le orchidee, Legambiente ecc.) con cui portano avanti numerose collaborazioni assieme agli enti preposti.
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Quali sono le operazioni materiali che vengono svolte nelle attività sul campo dei progetti conservazione?
Ogni habitat, o più nello specifico, ciascun biotopo fa storia a se con i propri problemi ed emergenze naturalistiche da conservare. Nei due progetti che gestiamo in Toscana dobbiamo affrontare per esempio problemi di natura idrica, contenimento delle specie invasive (Ulex europaeus, Pteridium aquilinum, Molinia sp., Campylopus introflexus) che le torbiere di alta montagna non presentano. Vi è inoltre la peculiarità aggiunta della coesistenza di entità mediterranee e relitti tropicali (vedi la felce florida Osmunda regalis), insieme a sfagni e drosere (relitti delle ultime glaciazioni quaternarie), formando delle fitocenosi di notevole pregio botanico e fitogeografico. Altre attività prevedono il monitoraggio, sorveglianza, propagazione con le università delle specie endemiche che, sovente, si trovano esposte a notevoli pericoli. In alcuni casi è stato possibile salvaguardare alcuni ceppi di Utricularia scomparsi in natura mediante la coltivazione ex situ.
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E’ possibile partecipare a queste attività?
Per partecipare a queste attività è necessario essere soci AIPC ed aver svolto per qualche tempo attività di volontariato o di supporto ai nostri stand. Visto che la mansione richiede una corretta sensibilizzazione e un minimo di infarinatura naturalistica, ne approfitto per invitarvi tutti all’imminente workshop tematico che si terrà al meeting di Mira.
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Qual è il clima di lavoro e quali i requisiti richiesti?
Bruschette con l’olio buono, vino e dolce sono sempre la ciliegina finale di ogni giornata di intervento! Va però detto che, molto spesso, si inizia a lavorare prima dell’alba concludendo nel tardo pomeriggio. I risultati visibili a fine primavera però ripagano sempre delle levatacce.
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Esiste differenza tra la coltivazione in vaso e godere della vista di queste magnifiche piante in natura?
È chiaro che a vederle in natura si capisce come funziona il loro mondo e i rapporti col loro ecosistema, cosa difficilmente comprensibile con la sola coltivazione. Ho già avuto modo, durante le mie ricerche, di osservare Drosera rotundifolia in vari substrati sia acidi che ultrabasici, con notevoli variazioni nella componente floristica: ciò lascerebbe suggerire uno spazio ecologico più ampio rispetto a quello che gli si attribuirebbe con le sole nozioni maturate in cattività. Fanno eccezione, ovviamente, molte specie endemiche di Pinguicula strettamente legate ad ambienti particolari (es. l’habitat prioritario del Cratoneurion) dove la loro presenza è intimamente legata a un substrato specifico, associazioni di briofite e biofilm di cianobatteri. In questo caso, più una specie dimostra uno spazio ecologico ristretto più quest’ultima risulterà sensibile ai piccoli cambiamenti, fungendo da importante biondicatore per habitat vulnerabili o particolarmente a rischio.
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Spesso ti abbiamo visto portare avanti battaglie contro i depredatori di sfagno in natura, quali sono i rischi e quanto è importante la presenza di questo muschio nelle nostre zone umide?
Gli sfagni sono delle briofite che contribuiscono in maniera fondamentale, assieme ad altre piante, alla formazione dei depositi torbosi nei vari habitat di torbiera (torbiere a mosaico, torbiere alte, torbiere boscate) ciascuno di notevole interesse dal punto di vista della conservazione. Al pari delle nostre specie di Pinguicula e alcune specie di Drosera (es. D. rotundifolia) rappresentano dei veri e propri “relitti” di climi freddi, comunemente diffusi durante i periodi glaciali e postglaciali e del Quaternario. A quell’epoca, infatti, il clima dell’Italia era del tutto simile a quello che si può riscontrare adesso in alta Europa e nelle zone temperate del nostro emisfero (Norvegia, Finlandia ecc.); stagni, paludi e torbiere coprivano grandi distanze in pianura, mentre i rilievi settentrionali erano ancora ricoperti da una spessa calotta di ghiaccio. Mano a mano che la temperatura media del pianeta si faceva sempre più elevata, la flora dei climi freddi si ritirò sempre più verso le alte latitudini, oppure in quota, lasciando il posto a delle piccole stazioni isolate dall’attuale baricentro di distribuzione nord europeo. Oggigiorno queste piccole zone umide rivestono un notevole significato per la conservazione in termini di biodiversità, tanto che rappresentano eccezionali laboratori di studio di un territorio, sia per l’indagine storico-climatica che ecologica. Come se non bastasse, le torbiere giocano un ruolo decisivo nel ridurre i rischi idrogeologici durante le piene o stoccare ingenti quantità di CO2. Purtroppo, e lo dico con rammarico, siamo ancora molto indietro nella loro protezione rispetto ad altri paesi; cosa non ammissibile sia per la loro rarità in Italia sia per l’estrema fragilità in clima mediterraneo. Mi auguro quindi che ciascun appassionato sensibilizzato al problema faccia la sua parte, non solo nella divulgazione, ma anche nella denuncia di certi comportamenti senza scrupoli che minacciano l’esistenza di tali meravigliose realtà.
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Quali sono i tuoi progetti sia riguardante la conservazione che la coltivazione?
Il progetto è sempre quello unitario di riuscire a legare entrambe le cose, non solo nel mio caso, ma anche in quello degli altri appassionati che mi/ci seguono. La coltivazione può andar bene per iniziare, ma è solo l’inizio di un percorso ben più vasto che vi invito ad approfondire al workshop di Mira.
Carnivorandia.tk 17 maggio 2018
Foto di G. Pandeli
Contatti: conservazione.aipc@gmail.com